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Il coraggio in terapia: il dissenso che favorisce il cambiamento.

Bernardino Meloni – Psicologo psicoterapeuta

“Non puoi tornare indietro e cambiare l’inizio, ma puoi iniziare da dove ti trovi e cambiare il finale.”

C. S. Lewis.

Chi esercita come me la professione di psicoterapeuta familiare non può non rimanere colpito dalla frase del noto scrittore britannico. Semplice e chiara.

I pazienti condividono con noi terapeuti, con sofferenza, rassegnazione e, alle volte, disperazione, le esperienze di incomprensioni, le assenze o le presenze dolorose, i traumi che hanno reso la loro vita complessa e infelice. 

Ho imparato nel tempo che le persone non parlano facilmente delle loro ferite, spesso preferiscono nascondere il dolore come fosse una colpa o, come dice Yalom (2014):

“[…] perché credono che ci sia qualcosa di fondamentalmente inaccettabile in loro, qualcosa di ripugnante e imperdonabile.”

Una parte fondamentale del mio lavoro consiste nel far sì che chi mi chiede aiuto si senta al sicuro, che il contesto e la nostra relazione diventino progressivamente accoglienti e rassicuranti. Ma la scelta di condividere i vissuti dolorosi e in quali tempi farlo è, in ultima analisi, del paziente.

Ed è una decisione che richiede un coraggio enorme. Alcuni di noi hanno esperienze o desideri “inconfessabili”, i tabù che preferiremmo non raccontare nemmeno al nostro partner o al nostro migliore amico. Spesso scegliamo di non aprirci perché immaginiamo che la reazione dell’altro alle nostre parole non sarà positiva: ci criticherà o peggio si allontanerà da noi? Altre volte, pur vivendole, non raccontiamo le nostre fragilità perché preferiamo mantenere la nostra immagine di persone forti e sicure.

Situazioni e vissuti simili, ma in scala maggiore, si verificano anche in terapia. Condividere i propri dolori e pensieri più angoscianti, magari per la prima volta nella vita, rappresenta un atto di dissenso. Come ha ben evidenziato Noam Shpancer (2020):

“Nella mia pratica, vedo principalmente clienti ansiosi. Arrivano infastiditi e tormentati da ogni sorta di paure, fobie, compulsioni, traumi ossessionanti e preoccupazioni. Tuttavia, quando le persone vengono in terapia per affrontare le loro ansie, manifestano un altro aspetto della loro architettura interna: il loro coraggio. Tutti noi abbiamo paura e coraggio. […] Possiamo avere sia grande coraggio che grande paura allo stesso tempo. E possiamo mostrare grande coraggio in un contesto e grande paura in un altro. […] Quello che vedo in terapia non sono i clienti che hanno paura, ma i clienti che sono coraggiosi.”

Come non essere d’accordo? Lo stesso Shpancer (ibidem) continua affermando:

“La scelta di entrare in terapia è un atto di dissenso, una lotta per la libertà, la libertà interna, contro le voci interne e le abitudini durature che sono spesso oppressive, astute e letali come qualsiasi tiranno del mondo. Questo è il coraggio.”

Intraprendere un percorso psicoterapeutico è uno tra i tanti modi per dichiarare di voler cambiare il finale mettendosi alla ricerca delle parole necessarie per farlo. 

Ripercorrere la storia delle proprie esperienze nel corso della terapia, all’interno di una relazione protetta e accogliente, permette di dar voce alle emozioni, riuscendo a costruire un’integrazione, che prima risultava troppo complessa, con le “cognizioni”; significa creare un ponte che colleghi ciò che abbiamo capito con ciò che abbiamo sentito.

L’obiettivo è trovare una nuova coerenza nel racconto. Questo processo spesso non è semplice ma risulta necessario per prendere le distanze da un passato doloroso che può risultare disturbante e minaccioso ancora oggi. È sempre un grande apprendimento imparare a lasciare il passato “Là e allora” per concentrarci maggiormente sul “Qua e ora”.

Alcuni, come D. J. Siegel e T. P. Bryson (2020), citando Jack Kornfield, associano questo passaggio a una particolare forma di perdono:

“[…] perdonare significa rinunciare a ogni speranza di un passato migliore. Quindi, perdoniamo non per giustificare, non per dire che tutto andava bene, ma per abbandonare l’illusione di poter cambiare il passato. L’accettazione e il perdono resi possibili dal processo di dare un senso alla nostra vita hanno un effetto profondamente liberatorio.”

Sentire di essere pronti a “voltare pagina” produce benessere.

Nella mia pratica di psicoterapeuta familiare ho incontrato molte persone, coppie e famiglie coraggiose: genitori che chiedono aiuto per “le difficoltà del figlio” e si ritrovano a essere parte di quelle difficoltà poiché scoprono che queste nascono all’interno della relazione; partner che chiedono all’altro/a di cambiare e scoprono che a cambiare dovranno essere anche loro.

È un cambio di prospettiva difficile, scomodo: se il marito è convinto che tutte le difficoltà familiari dipendano dalla moglie non accetterà facilmente di mettersi in discussione, di uscire dalla sua “zona di comfort” per vedersi come parte del problema. Ma se si riesce a far vedere che quella zona di comfort è solo una illusione  (chi vivrebbe bene con un partner che si ritiene “problematico” e che ci costringe a discutere quotidianamente?) allora un cambiamento è possibile. “Cosa dipende da me?” è una domanda coraggiosa, sia che riguardi le mie difficoltà individuali, quelle della mia coppia o della mia famiglia.

Alcuni sentono questa sfida troppo difficile da affrontare o, secondo quando sto dicendo, non sono pronti a voltare pagina.

Ma molte altre famiglie, coppie o singoli individui, rimangono. Con coraggio.

T. W. Smith (2018), nel suo “Atlante delle emozioni umane”, parla del coraggio in questi termini:

“La parola ‘coraggio’ deriva dal francese antico corage, a sua volta derivante dal latino cor (cuore). In origine si riferiva al cuore stesso, che all’epoca veniva inteso come il luogo dove erano contenuti tutti i sentimenti e la fonte dei più profondi desideri di una persona. […] Invece di essere la pompa di circolazione del sangue, si credeva che funzionasse come una camera di riscaldamento per gli spiriti vitali del corpo. Più elevata era la temperatura di questi spiriti, più coraggiosa veniva ritenuta una persona.”

Smith ripercorre l’idea di coraggio attraverso le epoche storiche ma conclude la sua analisi scrivendo che:

“Ma forse è l’enfasi che poniamo sulla forza d’animo, la capacità di affrontare i propri demoni o di realizzare se stessi nonostante le ferite lasciate da un trauma, che ci ricorda più da vicino la concezione medievale del coraggio. Quello, e l’idea che l’eroismo non riguardi soltanto grandi uomini a cavallo, ma sia qualcosa a cui possiamo aspirare tutti quanti noi.”

Le sedute familiari sono uno spazio di emozioni intense, una seduta familiare non lascia mai indifferenti. James  Framo (1996) lo anticipava alle famiglie che incontrava:

“È utile far sapere alla famiglia che si è coscienti di quanto dev’essere stato difficile, per loro, venire alla seduta; […] Un altro scopo dell’incontro, sosteniamo, è dare a tutti loro l’opportunità di occuparsi di problemi che possono avere avuto l’uno con l’altro nel passato o nel presente. […] Aggiungiamo che a volte, quando si affronteranno certi argomenti, potranno arrabbiarsi o turbarsi o anche piangere, ma che questi sentimenti sono una fase che devono attraversare.”

Coraggio chiama coraggio: il coraggio dei nostri pazienti deve incontrare il coraggio da parte nostra, un coraggio che sostenga il cambiamento. W. J. Doherty (1997) afferma chiaramente che il coraggio sia una caratteristica indispensabile per essere buoni terapeuti e invita i colleghi a ripensare ai momenti migliori dei casi più complessi:

“[…] Chiedetevi se quelli non fossero momenti nei quali avete dovuto fare appello al vostro coraggio e osare qualcosa di rischioso o difficile per aiutare i vostri pazienti, momenti nei quali avete dovuto abbandonare la vostra zona di tranquillità, sedute dopo le quali avete sentito il bisogno di trovare un collega per parlare di ciò che era appena successo. […] I terapeuti trovano il coraggio di mantenere la partecipazione, di continuare a tentare, il coraggio di assumere posizioni chiare. All’opposto, la mancanza di coraggio […] si evince più comunemente quando i terapeuti permettono ai pazienti di mantenere vecchi modelli invece di far avanzare la terapia a un nuovo livello di intensità che possa porre difficoltà al terapeuta.”

Ci vuole coraggio per chiedere a una persona in lacrime, che esprime un profondo dolore, di rimanere ancora un po’ su quelle lacrime. Umanamente viene istintivo consolare chi vediamo soffrire. Carla, chiameremo così una mia paziente che con coraggio sfidava il suo passato, al termine di una seduta particolarmente dolorosa mi disse: “Durante l’incontro continuavo a chiedermi -Che cosa vuole da me? Perché continua a torturarmi in questo modo?”. Era la prima volta che parlava della sua paura legata a una diagnosi severa che aveva minacciato anni prima la sua stessa vita. Le avevo semplicemente chiesto di rimanere sulle sue emozioni; le aveva nascoste a tutti poiché esplicitarle avrebbe mostrato il suo lato fragile, un lato che non conosceva, non accettava e che la spaventava.

Ho temuto di compromettere la relazione terapeutica con Carla in quella seduta, di chiederle troppo. Fortunatamente non è andata così.

Impossibile non appassionarsi quando ci si trova al cospetto di una persona, di una coppia o di una famiglia che con coraggio ha deciso di cambiare il finale.

Bibliografia

Foto Michael Heuser su unsplash.com