Non chiamiamola guerra
Rischi nell’uso della metafora bellica al tempo del Coronavirus
di Bernardino Meloni
“Le parole sono importanti” diceva uno sconvolto Nanni Moretti nel film “Palombella rossa” e aggiungeva “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste” (1).
Da fine febbraio siamo immersi in un mare di comunicazioni e informazioni relative al Coronavirus; ne parlano i notiziari, i social, ne parliamo tutti. Sentiamo ripetere il termine “infodemia”, ovvero “la rapida diffusione di informazioni non accurate o incomplete o false, in grado di amplificare gli effetti di un problema” (2). Il tempo è come “sospeso” e viviamo, all’interno delle nostre abitazioni, più o meno consapevolmente, impegnati a costruire la nostra personalissima rappresentazione della pandemia.
Quanto stiamo vivendo è talmente nuovo e spaventante che sfida la nostra capacità di pensare e gestire le informazioni. Abbiamo in mente immagini e racconti relativi al virus tanto potenti che quasi sfuggono, non riusciamo a coglierli appieno. E, probabilmente, proprio per questa ragione, cerchiamo parole che ci aiutino a controllare e contenere quanto non immaginavamo o, forse, preferiamo ignorare: la nostra fragilità, sia individuale che collettiva (si pensi alle terapie intensive e al comparto sanitario in affanno).
L’impegno profuso dalla Sanità e dalle Nazioni per fronteggiare il Coronavirus è stato descritto attraverso la metafora della guerra, immagine forte dalla quale è facile farsi ammaliare. Quella bellica è una metafora consolatoria (curioso, no?) poiché ci toglie rapidamente dalle incertezze date dalla complessità di questo periodo; inoltre, ha il grosso vantaggio di chiarire quali siano “gli schieramenti” e quindi anche dove possiamo posizionarci in questa situazione.
Col passare dei giorni mi sono accorto di quanto la metafora del conflitto portasse diverse criticità e, “parlando male”, ci costringesse a pensare e a vivere ancor peggio una situazione già di per sé drammatica. Mi pareva che quel “mondo” costruito sulla metafora del conflitto escludesse una parte fondamentale della nostra vita: la parte emotiva dell’esperienza.
I pazienti che hanno portato il tema del virus nelle sedute di marzo e aprile, hanno dato maggiore spazio nel loro racconto ai fatti (la distanza dagli affetti, la drastica riduzione del lavoro, la difficoltà della gestione dei bambini a casa da scuola) che non alle loro emozioni.
Mi sembra di osservare un appiattimento, ovviamente inconsapevole, dei vissuti di ciascuno di noi, che temo possa essere favorito da una descrizione bellica del Covid-19. In guerra chi si ferma anche solo a pensare è perduto; figuriamoci se sia possibile soffermarsi sul “sentire le emozioni”. Nel momento in cui avremmo maggiormente bisogno di aprirci con le persone che amiamo e raccontare loro quanto sentiamo, ci ritiriamo, confinati e prigionieri (altri termini presi in prestito dalle narrazioni belliche) nel mondo disegnato dalla parola “guerra”.
Il giornalista Pasquale Pugliese chiarisce bene questo passaggio nel suo articolo “Pandemia come guerra, ossia la banalizzazione della complessità. I dieci errori di un paradigma sbagliato” quando afferma che “Il paradigma della guerra, invece, è il più banale degli schemi, la semplificazione estrema, la certezza assoluta: la riduzione del fenomeno a mera dicotomia di potenza – tra noi e il nemico – che perde di vista l’interconnessione tra le persone e tra le persone e la natura, ossia l’eco-sistema e le sue interazioni. Usare la narrazione sbagliata significa dunque costruire immaginari e narrazioni fallaci, che portano fuori strada e non aiutano a identificare e costruire soluzioni efficaci e durature”.(3)
Utilizzando l’immagine della guerra, semplifichiamo il mondo in cui viviamo e l’esperienza personale che ne stiamo facendo. Inoltre, aggiunge ancora Pugliese, “divide le persone tra amici e traditori. Ed in una guerra vi sono sempre i disertori o, peggio, i traditori. Contro i quali non si può avere nessuna pietà. Nella guerra al virus i traditori sono gli untori, veri o immaginari, come raccontato magistralmente da Alessandro Manzoni ne La storia della colonna infame. E poiché nell’educazione bellica scovare e consegnare disertori e traditori è un dovere civico, abbiamo migliaia di cittadini pronti a segnalare alle forze dell’ordine la mamma che porta il bambino a sgranchirsi le gambe, l’anziano che fa due passi perché ha la pressione alta, il ragazzo che tira due calci al pallone di fronte a casa…” (4).
La metafora della guerra ingolosisce perché semplifica una realtà complessa e sconosciuta che ci angoscia, ma allo stesso tempo ingabbia in una narrativa in cui i ruoli sono rigidamente imposti (gli amici e i nemici) risultando quindi divisiva. Porta la nostra attenzione a orientarsi verso l’esterno piuttosto che a sentire cosa ci si agita dentro.
Il virus è invisibile a occhio nudo ma in pochi mesi ha creato danni, questi si, visibili: per citarne solo alcuni, oltre 28.000 vittime (al 3/5/2020, ndr), personale sanitario stremato, distanziamento sociale, le scuole e negozi chiusi. Facciamo fatica a connettere i danni visibili a un agente invisibile. Se “abitiamo” il mondo costruito intorno alla descrizione bellica, la spinta a individuare un nemico sarà forte: potrà essere il runner che vediamo per strada, una persona di origini cinesi o chi, magari, ha contratto il virus stesso e torna, dopo lunghissime settimane trascorse in ospedale, nel suo condominio. “Guardare fuori” è una strategia per non ascoltare le nostre paure.
Anche in passato, come riporta Manfredi, gli effetti in area psicologica che hanno caratterizzato le grandi epidemie sono stati “il sentimento di impotenza, il senso del lutto diffuso, il crollo delle strutture organizzative sociali […] A prevalere su tutto c’è la crisi dei rapporti interpersonali, per cui ogni individuo diventa un potenziale “untore” del morbo”. (5)
La descrizione semplificata della “guerra contro il coronavirus” porta a scindere nettamente tra “buoni” e “cattivi” e a estremizzare il giudizio sull’Altro, giudizio che spesso si fonda su un’osservazione parziale: il medico che cura i malati viene visto come “Eroe” se considero la sua mansione, ma può essere ostracizzato e temuto, tramutato cioè in “nemico”, se considero l’infezione che cerca di curare. E’ di pochi giorni fa la notizia di un’infermiera che ha trovato nella sua casella della posta un messaggio anonimo, lasciato presumibilmente dai vicini di casa, in cui c’era scritto “Grazie per il Covid che tutti i giorni ci porti in corte. Ricordati che ci sono anziani e bambini. Grazie.»(6)
Il Prof. Fabio Sbattella, responsabile dell’unità di ricerca in psicologia dell’emergenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sostiene che l’uso della metafora della guerra sia fuorviante e pericoloso; la guerra presuppone un nemico all’interno di una dinamica tra esseri umani; nella situazione che stiamo vivendo invece c’è una dinamica tra esseri viventi differenti: gli umani e il virus. Per questo Sbattella preferisce parlare di competizione con un elemento della natura: in questa competizione, che è dura, non useremo violenza, bensì “forza, astuzia, strategia e gioco di squadra”.(7)
E sul gioco di squadra, sulla vicinanza reciproca, sulla fiducia nell’Altro e nella condivisione di quanto sentiamo, dovrebbe fondarsi una nuova narrazione del periodo che stiamo vivendo.
La metafora bellica non funziona, come riporta Sanzia Milesi, perché “non c’è un nemico che sta oltre una linea, un confine, una trincea. Un “altro” straniero e nemico. Il nemico è comune e gli altri sono nostri alleati. Solo condividendo gli sforzi, le cautele, i sacrifici potremo vincere il virus e solo con la fiducia, cioè fidandosi e comportandoci in modo da ispirare fiducia. Tutto il contrario di una guerra.»(8)
Similmente, anche il Prof. Luigi Cancrini, uno dei più grandi psichiatri italiani, quando gli è stato domandato di spiegare le differenze tra il periodo attuale e quello della guerra, ha affermato: “La guerra è il tempo dell’odio. In guerra per sopravvivere si è costretti a uccidere l’altro […] Invece questo di oggi è il tempo della vicinanza e della solidarietà. Il nemico è esterno all’umanità e gli uomini sono costretti a unirsi per far fronte alla comune minaccia”.(9)
Parlare della pandemia come di una guerra deresponsabilizza le persone e le rende passive, in attesa di ordini che arrivino dall’alto, poco propense ad ascoltare il proprio mondo interno. La visione della pandemia come una competizione permette di sentirci maggiormente attivi e responsabili nella partita che stiamo giocando, non divisi ma tutti dalla stessa parte.
Rifocalizzare l’attenzione sul nostro mondo interno è più faticoso ma è una via per trovare una rinnovata fiducia nella relazione con l’altro. Se condivido quanto sento, invito il mio interlocutore a fare altrettanto. Irvin D. Yalom, professore emerito di Psichiatria all’Università di Stanford e psicoterapeuta di scuola esistenzialista, ci ricorda che “Nelle relazioni strette, più si rivela sui propri sentimenti e pensieri più intimi, più facile è per gli altri rivelare se stessi. L’autorivelazione ha un ruolo cruciale nello sviluppo dell’intimità. In genere le relazioni si costruiscono attraverso un processo di autorivelazione reciproca”(10).
E’ probabile che raccontare alle persone care ciò che ci preoccupa permetta di ridurre il peso dei nostri pensieri e porti il nostro ascoltatore a fare altrettanto. Come si vede, possiamo fare molto per contrastare l’aspetto psicologico dell’emergenza.
Questa funzione della condivisione appare ancor più importante in questi primi giorni della “Fase due”, giorni in cui torneremo in campo a giocare una partita importante.
Bernardino Meloni – Psicologo psicoterapeuta
Note
(1)“Palombella rossa”, Nanni Moretti, Italia, 1989.
(2) Giancarlo Manfredi, “Infodemia: i meccanismi complessi della comunicazione nelle emergenze”, 2015, Guaraldi s.r.l.
(3) http://www.vita.it/it/blog/disarmato/2020/04/13/pandemia-come-guerra-ossia-la-banalizzazione-della-complessita-i-dieci-errori-di-un-paradigma-sbagliato/4850/
(4) http://www.vita.it/it/blog/disarmato/2020/04/13/pandemia-come-guerra-ossia-la-banalizzazione-della-complessita-i-dieci-errori-di-un-paradigma-sbagliato/4850/
(5) Giancarlo Manfredi, “Infodemia: i meccanismi complessi della comunicazione nelle emergenze”, 2015, Guaraldi s.r.l.
(6) https://www.corriere.it/cronache/20_aprile_22/coronavirus-infermiera-lucca-trova-lettera-a-casa-ci-porti-covid-24ac729c-849b-11ea-8d8e-1dff96ef3536.shtml
(7) https://www.youtube.com/watch?v=Vx_bvOUvAUM
(8) http://www.vita.it/it/article/2020/03/26/la-viralita-del-linguaggio-bellico/154699/
(9) La Repubblica, 29/03/2020
(10) Irvin D. Yalom, 2008, “Fissando il sole”, Neri Pozza Editore, Vicenza (2017)